mercoledì 15 maggio 2013

Pericoli della partecipazione mediatica....

Riporto un articolo scritto da S.I.P.A.P. (Società Italiana Psicologi Area Professionale Privata), nella persona di Lelio Bizzarri.


Psicologi portatori di stigma sociali? No, grazie.

epilessiaIl 18 aprile 2013, durante la trasmissione “La vita in diretta”, una collega psicologa ha rilasciato dichiarazioni in merito alla vicenda dell’omicidio di Sarah Scazzi che hanno destato l’indignazione di varie associazioni di persone affette da disturbi epilettici (AICE, LICE), nonché sollevato un’onda mediatica che si è abbattuta sulla nostra categoria (la quale, da via della Stamperia in poi, sembra essere sempre più spesso alla ribalta della cronaca per episodi non proprio edificanti), con gli articoli de “La Stampa”, del “Corriere.it”, de “Il Sole24ore” e vari altri blog, giornali on-line.
Che cosa ha detto questa collega?
Riferendosi a Michele Misseri afferma: “… forse c’è qualcosa che non va in quest’uomo, qualche rotella fuori posto e chi sa che questa rotella fuori posto non sia stata fuori posto in quel momento (nel momento dell’omicidio di Sarah Scazzi, – nda) questo nessuno ce lo potrà mai dire, anche se, attenzione non è mai troppo tardi perché lui si presenti spontaneamente da uno psichiatra, da uno psicologo, voglio dire non è mai troppo tardi per capire com’è il funzionamento, noi come facciamo a sapere, ad esempio, che Michele Misseri non soffre di epilessia? Come facciamo a sapere che lui non ha sofferto e soffre di crisi epilettiche? Potrebbe essere che ha ucciso in preda ad una crisi epilettica …”.
Intanto precisiamo che le dichiarazioni riportate sono state fatte due giorni prima della sentenza con la quale il Misseri è stato condannato ad 8 anni per l'accusa di soppressione di cadavere e furto aggravato di telefonino, ma assolto per l'accusa di omicidio.
Precisato ciò per dovere di cronaca, torniamo alla vicenda che interessa la categoria degli psicologi e lo facciamo dicendo che siamo sicuri che la collega si è espressa male, condizionata dalla concitazione dell’esposizione mediatica, e con questo nostro articolo vogliamo anche invitarla ad usare tutti i mezzi di divulgazione in suo possesso per rettificare e chiarire il suo pensiero. Così come siamo disposti ad ospitare, pur non essendo una nostra socia, una sua dichiarazione di rettifica in merito.
Non possiamo, però, accettare che un’illustre rappresentante della nostra categoria, dichiari pubblicamente che l’epilessia possa indurre una persona a commettere dei delitti. Innanzitutto perché quest’affermazione non ha alcun fondamento scientifico, bensì affonda le sue radici in stereotipi e pregiudizi duri ancora a morire nelle persone comuni, e, in secondo luogo, perché dette affermazioni gettano discredito su tutta la categoria degli psicologi.
Ci teniamo a sottolineare che il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani a questo riguardo, in più articoli, fa riferimento:
  • alla responsabilità sociale che lo psicologo ha in virtù del potere suggestivo dei suoi interventi;
  • all’obbligo del rispetto della dignità delle persone;
  • alla doverosa attenzione per la validità e attendibilità delle fonti e dei dati su cui basa le proprie ipotesi e conclusioni.
La nostra urgenza è innanzitutto quella di ribadire che il binomio epilessia-potenziale assassino, adombrato nelle dichiarazioni della dottoressa intervistata a “La vita in diretta”, non ha alcun fondamento scientifico e diffondere detta rettifica a quante più persone possibile dato che le succitate dichiarazioni erronee sono state ascoltate da milioni di telespettatori.
In seconda istanza vogliamo utilizzare questo triste episodio come spunto di riflessione per tutti i/le colleghi/e circa l’importanza del nostro ruolo nella società soprattutto quando quello che affermiamo è amplificato dal mezzo mediatico.
Gli psicologi possono svolgere un ruolo fondamentale nel sensibilizzare le persone a prendersi cura della propria salute mentale e del benessere psicologico, possono mettere in evidenza i meccanismi della comunicazione e le dinamiche psicosociali che contribuiscono a costruire pregiudizi e stereotipi favorendo l’integrazione oppure, al contrario, con dichiarazioni sbadate come queste, possono alimentare questi stessi stigma sociali. Inoltre, dare ad essi una veste pseudoscientifica li rende ancor più coriacei e resistenti a smentite.
Nella speranza che episodi così grossolanamente lesivi del benessere psicosociale dell’utenza, nonché della reputazione della nostra categoria, non si verifichino più, reiteriamo ancora una volta il nostro invito affinché tutta la categoria si faccia promotrice della divulgazione di informazioni corrette in merito alla natura dei disturbi epilettici. Inoltre auspichiamo che ogni collega si impegni quanto più possibile per mettere sempre e comunque il rispetto della dignità delle persone al primo posto, tanto negli interventi diagnostici e terapeutici, così come nelle comunicazioni di carattere informativo e formativo.

sabato 13 aprile 2013

Maggio di Informazione Psicologica

Anche quest'anno si replica questa importante iniziativa, cioè il mese del Benessere Psicologico.
Gli psicologi aderenti al sito Psycommunity organizzano incontri informativi aperti alla popolazione, ed offrono un primo colloquio gratuito.
Con le parole del sito stesso:

In un mondo in crisi, sono sempre più numerose le persone escluse e marginalizzate, con un aumento vertiginoso dei numeri del disagio psichico. Di fronte a questi nuovi problemi, la psicologia sta studiando strategie non tradizionali per promuovere il benessere.
Gli psicologi del MIP sono stati tra i primi, in Italia, a muoversi in questa direzione, fornendo, già dal 2008, a tutti la possibilità di accedere gratuitamente alla prevenzione psicologica, incontrando le persone per informarle e promuovere la salute a tutto tondo, in funzione di stili di vita più sostenibili per i singoli e per le comunità. Perché "non c'è salute senza salute mentale"!

Quindi affrettatevi a consultare il sito MIP della provincia di Brescia, nel quale potrete consultare le varie iniziative organizzate, nonchè l'elenco degli psicologi che offrono un colloquio gratuito (tra cui io).Buon Maggio a tutti!

giovedì 28 febbraio 2013

Cos'è la Psicologia Clinica?

Il termine Clinico deriva dal greco, ed indicava la posizione sdraiata del malato ed il medico chino al suo capezzale. Tale raffigurazione contiene l'essenza del metodo clinico, e cioè la relazione del medico col paziente.
Oggi in medicina non è più così; il progresso tecnologico ha messo in ombra la relazione interpersonale e la sua individualità. Oggi il paziente viene visitato da vari specialisti, attraverso una serie di innumerevoli esami di laboratorio. Tutto ciò con lo scopo di conseguire una rapida diagnosi. Il cambiamento così avvenuto in medicina, cambia pertanto il significato originario di Clinico.
Questo senso è invece rimasto in psicologia. In medicina Clinico è diventato ormai sinonimo di curativo, terapeutico, e trova il suo fondamento nel fatto che ad una specifica diagnosi corrisponde una specifica terapia. In psicologia non siamo mai di fronte a "malattie", ma solo, eventualmente, a "sindromi". Per questi motivi è importante sottolineare come la trasposizione dei modelli medici dalla medicina alla psicologia clinica risulti impropria e fuorviante.
La Psicologia Clinica opera con mezzi essenzialmente psicologici, nel continuum che va dal benessere al disagio psichico rilevato. In psicologia, quindi, Clinico si riferisce al metodo, anzichè alla cura. L'aggettivo Clinico riferito alla psicologia ha un significato diverso, più ampio e complesso che in medicina.
Psicologia Clinica significa allora conoscenza della psiche del singolo soggetto attraverso una relazione intersoggettiva, che impegna una "soggettività attrezzata" di un operatore per sviluppare una migliore soggettività dell'utente. 


BIBLIOGRAFIA:
Psicologia clinica perinatale, A. Imbasciati, F. Dabrassi, L. Cena, Ed. Piccin, 2007

lunedì 21 gennaio 2013

Tesi: "Il terapeuta omosessuale: tra riservatezza e self-disclosure"


Pubblico una piccola parte del mio lavoro di tesi di laurea, intitolato "Il terapeuta omosessuale: tra riservatezza e self-disclosure".
Si tratta di una parte dell'introduzione; chi fosse interessato a maggiori chiarimenti, può inviare un commento o contattarmi direttamente.


[...]Questo caso [ho esposto un mio caso clinico] mi ha fatto riflettere sul tema dell’orientamento sessuale,
facendomi vedere come possa assumere varie forme, e come non sia per
nulla scontato. Anzi, credo si tratti di un elemento molto importante, sia nella
costruzione d’identità propria di ogni individuo, sia all'interno di un percorso di
terapia.
Leggendo la letteratura sul tema, mi sono resa conto di quanto l’opinione,
esplicita ed implicita, del terapeuta circa gli orientamenti sessuali possa
influenzare il corso della terapia stessa.
In un articolo intitolato “L’influenza del genere del paziente e dell’analista sulla
relazione analitica”, Kernberg (1998) descrive l’importanza di tenere in
considerazione il genere e l’orientamento sessuale di entrambi i partecipanti
della coppia terapeutica. Egli evidenzia come, a ciascun tipo di “abbinamento”
(terapeuta uomo con paziente donna o uomo, terapeuta donna con paziente
donna o uomo, terapeuta uomo o donna con paziente uomo o donna
omosessuale), corrispondano movimenti transferali e controtransferali
differenti. Secondo l’autore:

La conseguenza di gran lunga più importante della differenza di genere
tra paziente ed analista risiede a mio parere nei tempi e nell’intensità
dello sviluppo dei movimenti transferali di tipo erotico, e delle relative
difese (p.186).

Quindi per l’autore con il termine genere non si intende solo l’elemento di
realtà, il dato biologico dell’essere maschio oppure femmina, ma allarga il
quadro includendo altre dimensioni quali l’identità di ruolo sessuale
(dipendente più che altro da fattori culturali), l’intensità del desiderio sessuale
e la scelta dell’oggetto d’amore.
Durante l’articolo, Kernberg tenta di riassumere le osservazioni degli effetti sul
transfert e sul controtransfert delle differenze di genere tra analista e paziente,
sottolineando come questi effetti siano modulati dalla continua influenza della
patologia e dello stile personale di entrambi i partecipanti al processo analitico.
In queste descrizioni l’autore include anche riflessioni su pazienti omosessuali,
sia maschi che femmine, ma non accenna all'omosessualità del terapeuta,
almeno non in modo significativo.
Questo ha acceso la mia curiosità, spostando la mia attenzione proprio verso
l’orientamento sessuale del terapeuta, con particolare accento
all'omosessualità dell’analista. Ha perciò preso il via un lavoro di ricerca in
letteratura sul terapeuta omosessuale; devo dire che non è stato un lavoro
facile, in quanto, per molte ragioni che saranno esposte nel corso della tesi, la
letteratura sul tema è ancora piuttosto scarsa.
Durante questa ricerca, ho inizialmente ho affrontato il modo in cui la teoria
psicoanalitica, da Freud fino ai giorni nostri, si è approcciata all’omosessualità.
È stato curioso notare che da un Freud, pur se contraddittorio, aperto e
moderno rispetto all’epoca vittoriana, si sia poi entrati in un clima teorico
patologizzante. L’omosessualità veniva vista come una patologia, da curare,
da modificare, e le cui cause andavano cercate nella strutturazione delle
relazioni primarie infantili. E pensare che Freud diceva:

L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di
vergognoso, non è un vizio, né una degradazione, e non può essere
classificata come malattia […](Jones, 1953, p.637)

E ancora:

L’impresa di trasformare un omosessuale pienamente sviluppato in un
eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori
dell’impresa opposta (1920, p.145).

Eppure, i teorici successivi non hanno raccolto tali osservazioni, elaborando
teorie che vedono l’omosessualità e l’omosessuale come qualcosa di
“sbagliato”, da curare. Questa tendenza si è protratta fino ai giorni nostri,
anche all’interno del panorama italiano; un esempio di ciò sono le cosiddette
“teorie riparative”, che fino ad ora non hanno ancora dimostrato
scientificamente la loro efficacia.
Nel testo ho poi sottolineato come tali tipi di teorie, spesso siano il riflesso di
una tendenza omofobica propria di chi le elabora, che maschera la sua
omofobia da concetto scientifico. Non stupisce quindi che molti terapeuti
omosessuali, facendo prevalere la loro stessa omofobia interiorizzata, non
siano mai usciti allo scoperto, oppure addirittura abbiano cercato in tutti i modi
di nascondere il loro orientamento sessuale ai pazienti ed ai colleghi. Negli
ultimi anni questa tendenza sta cambiando, sia perché gli istituti di
specializzazione si sono aperti anche a candidati omosessuali (anche se solo
dagli anni Novanta), sia perché alcuni di loro si sono chiaramente rivelati
attraverso i loro scritti (vedi Isay, Drescher, Firetto, ecc).
Questa maggior apertura, però, apre il problema di come gestire la rivelazione
del proprio orientamento sessuale all’interno del lavoro analitico; è necessario
comunicarlo ai pazienti? Con quale modalità?

sabato 19 gennaio 2013

Significato psicologico del baratto

Ultimamente ho (ri)scoperto la vecchia arte del baratto. E' stata una "scoperta" che mi ha fatto tornare alla mente che in realtà, da bambina, lo facevo molto spesso: scambiare figurine, biglie e tanto altro con altri bambini. Poi, con l'inizio dell'uso del denaro (da parte mia), gli scambi si sono fatti sempre più rari, fino a scomparire del tutto.
Negli ultimi anni c'è stato un fiorire di siti e blog che propongono il baratto, in particolar modo come mezzo per far fronte alla crisi economica. Dando un'occhiata qua e là su internet, mi sono accorta che esiste una fitta rete di persone che barattano, e con buoni risultati.
Mi sono quindi chiesta, data la buon ampiezza del fenomeno, che riflessi psicologici possa avere l'utilizzo del baratto invece dell'acquisto.
Come prima riflessione, mi sento di dire che ci hanno sempre insegnato che ogni cosa ha un costo, mentre se pensiamo al baratto, cambiamo prospettiva ed emerge che ogni cosa non ha un costo ma un valore. Si tratta di una differenza non solo di significato, ma anche di senso. Il valore è infatti una dimensione personale, che ognuno attribuisce a qualcosa in base alla propria personalità ed alla propria storia. Nella dimensione del valore viene coinvolta la parte affettiva, mentre nel costo e nell'acquisto la parte cognitiva.
Secondariamente, a mio avviso c'è molta differenza tra lo scambiare un oggetto con del denaro e lo scambiare un oggetto con un altro oggetto. Nel baratto, infatti, si tratta sempre di scambi di cose personali, nel senso di appartenenti a quella specifica persona. E' quindi uno scambio molto più "personalizzato" rispetto allo scambio col denaro (il denaro ha infatti un "valore" prestabilito, uguale per tutti i membri della società).
Ma quando parliamo di interazione tra le persone, non parliamo forse di scambio di parti di sè ("cose personali") con l'altro? E' possibile quindi pensare al baratto come una sorta di "nuovo" mezzo di relazionarsi agli altri, più vicino al funzionamento soggettivo che non l'acquisto, più affettivo e meno cognitivo.
In tempi di crisi, si riscopre l'arte di arrangiarsi, e si riscoprono anche, almeno un pò, le relazioni personali.