domenica 11 novembre 2012

Interpretazione come autosvelamento


Nella teoria psicoanalitica classica, l'interpretazione è stata concepita come un intervento fatto dall'analista verso il paziente, che aggiunge qualcosa di nuovo alla sua conoscenza della propria vita psichica tramite un processo di insight.
In questa concezione è implicita l'idea del paziente come oggetto di studio, e “ricevente passivo” delle interpretazioni dell'analista. Dal canto suo, l'analista è concepito come uno specchio, neutrale all'interno della seduta, a cui non è permesso esprimere la propria soggettività. Anzi, le proprie reazioni al paziente, cioè il controtransfert, viene inizialmente visto come elemento disturbante e per cui l'analista necessita di ulteriore analisi. La soggettività del terapeuta non deve perciò entrare all'interno della seduta, in quanto “disturbante” per il processo del paziente.
Con le nuove teorie, a partire dalle teorie relazionali fino all'intersoggettivismo, tutto ciò subisce un cambiamento.
Innanzitutto l'analisi è vista come un processo di campo, nel quale i componenti del campo (paziente ed analista) co-creano nuovi significati. In questa differente visione, anche l'interpretazione acquisisce un nuovo senso. Si parla di processo interpretativo, non di sola interpretazione, proprio perché si tratta di un intervento co-creato sia dal terapeuta che dal paziente. Ha il suo culmine nell'esplicitazione di contenuto che il terapeuta fa, ma questo non è che l'ultimo passaggio di un processo di cambiamento iniziato tempo prima; trae i suoi elementi dal materiale esplicito ed implicito che paziente e terapeuta vivono in seduta, e viene così co-costruita.
È perciò un intervento tecnico che genera un cambiamento, così come concettualizzato nella teoria classica, ma viene sottolineato anche il fatto che essa stessa si generi da un processo di cambiamento già in atto, senza il quale l'interpretazione non avrebbe un impatto mutativo nel campo.
Questo cambiamento generato è reso possibile dal fatto che un'interpretazione contiene tre dimensioni: quella affettivo/esperienziale, quella cognitivo/introspettiva e quella relazionale/interattiva.
La teoria classica spiegava la natura del cambiamento prendendo in considerazione solo la dimensione cognitivo/introspettiva, tralasciando le altre due e parlando perciò di un analista “anonimo e neutrale”. Le tre dimensioni sono però ugualmente importanti, e presenti in ogni intervento terapeutico, ma quella più trascurata dalla letteratura è sempre stata quella affettivo/esperienziale. Questa dimensione sottolinea la necessità e l'ineludibilità del coinvolgimento dell'analista nel processo terapeutico.
Utilizzando l'ottica intersoggettiva, e quindi la teoria di campo, risulta evidente come il contributo del terapeuta sia essenziale, ed anzi sia proprio la sua soggettività che determina il cambiamento del paziente.
La teoria classica eleggeva l'interpretazione a elemento tecnico principale (se non unico); nel panorama teorico attuale l'interpretazione perde questo primato, in quanto le dimensioni in essa contenute sono proprietà anche di tutti gli altri interventi che avvengono in seduta. Tutti gli interventi, tutte le “mosse relazionali” (Stern, “Il momento presente”), così come informano il terapeuta sul funzionamento mentale del paziente, allo stesso modo informano il paziente sui processi di pensiero del terapeuta. In questo modo, in qualsiasi momento della seduta il terapeuta trasmette la propria soggettività, ed è proprio questo che permette al paziente di creare una relazione col terapeuta.
Negli interventi, è proprio la dimensione affettivo/esperienziale che determina il potere trasformativo degli interventi stessi. L'efficacia di questi è legata proprio alla misura in cui esprimono la responsività affettiva del terapeuta. In questo modo il terapeuta, oltre a trasmettere la propria dimensione affettiva, trasmette anche informazioni su sé stesso, sulle proprie modalità di funzionamento. Possiamo parlare di un processo di autosvelamento (Self-disclosure), inevitabile ma di cui il terapeuta deve essere il più consapevole possibile per poterlo rendere terapeuticamente efficace.
I pazienti hanno bisogno, per creare una relazione col terapeuta, di sentire che hanno avuto un effetto su di lui, e che anche lui è una persona come loro. Per questo è importante trasmettere la dimensione affettiva e la propria soggettività, che è percepibile non solo dagli interventi verbali, ma anche e soprattutto dal non verbale e dall'implicito.
La dimensione implicita è estremamente importante, proprio perché veicola elementi propri del terapeuta che non sono mediati dalla comunicazione verbale e perciò più difficili da gestire. Si può parlare di una vera e propria comunicazione tra inconsci, quello del terapeuta e quello del paziente.

Questo aspetto della tecnica, cioè il fatto che qualsiasi intervento trasmetta la soggettività del terapeuta, mi ha molto colpito ed interessato. Soprattutto, vi ho trovato riscontro nella mia pratica clinica. Ho infatti notato come, all'interno di una seduta, tutto ciò che accade sia co-determinato da aspetti miei personali, a volte inconsapevoli. Il mio assetto interno ha influenza su quanto i pazienti esprimono di sé, e gli interventi che formulo, pur essendo legati a delle “regole” tecniche, riflettono la mia personalità. Mi rendo conto che probabilmente in alcuni casi è emerso anche troppo di me nelle sedute, nel senso che non sono riuscita a mediare la mia soggettività in funzione del paziente e del momento nel quale ci troviamo.
Responsabilità del terapeuta è proprio questa: essere il più consapevole possibile dei vari aspetti della propria soggettività, e riuscire a mediarli in modo che siano funzionali a quel determinato paziente in quel determinato momento.
In questo senso la tecnica è utile, nel senso che permette la modulazione dell'espressione dell'affettività ed emotività del terapeuta, mantenendo quindi nel lavoro analitico la tensione tra aspetti personali ed aspetti tecnici. È quindi vero che tutto, all'interno della seduta, dall'esplicito all'implicito, trasmette la soggettività del terapeuta, ma è anche vero che la tecnica aiuta ad utilizzare in modo terapeutico l'espressione della soggettività, o meglio l'incontro delle due soggettività. L'interpretazione, uno degli elementi della tecnica, è quindi oggi non solo uno strumento intrapsichico (concezione classica), ma anche intersoggettivo. Come dice Aron (“Menti che si incontrano”), un'interpretazione mette in contatto analista ed analizzando, gettando un ponte sullo spazio transizionale tra loro, li collega grazie all'incontro delle menti.
La mia intenzione è quella di sottolineare come questo incontro delle menti sia favorito e reso possibile grazie al processo di autosvelamento (Self-disclosure), implicito in ogni intervento tecnico, e quindi anche all'interno dell'interpretazione.


BIBLIOGRAFIA

“Intersoggettività e lavoro clinico_Il contestualismo nella pratica psicoanalitica”, D.M. Orange, G.E. Atwood, R.D. Stolorow. Raffaello Cortina Editore, 1999
“I contesti dell'essere_Le basi intersoggettive della vita psichica”, G.E. Atwood, R.D. Stolorow. Bollati Boringhieri, 1995
“La prospettiva intersoggettiva”, G.E. Atwood, R.D. Stolorow, B. Brandchaft. Borla, 1996
“Menti che si incontrano”, L.Aron. Raffaello Cortina Editore, 2004
“Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana”, D. Stern. Raffaello Cortina Editore, 2005