Nella teoria psicoanalitica classica, l'interpretazione è
stata concepita come un intervento fatto dall'analista verso il paziente, che
aggiunge qualcosa di nuovo alla sua conoscenza della propria vita psichica
tramite un processo di insight.
In questa concezione è implicita l'idea del paziente come
oggetto di studio, e “ricevente passivo” delle interpretazioni dell'analista.
Dal canto suo, l'analista è concepito come uno specchio, neutrale all'interno
della seduta, a cui non è permesso esprimere la propria soggettività. Anzi, le
proprie reazioni al paziente, cioè il controtransfert, viene inizialmente visto
come elemento disturbante e per cui l'analista necessita di ulteriore analisi.
La soggettività del terapeuta non deve perciò entrare all'interno della seduta,
in quanto “disturbante” per il processo del paziente.
Con le nuove teorie, a partire dalle teorie relazionali fino
all'intersoggettivismo, tutto ciò subisce un cambiamento.
Innanzitutto l'analisi è vista come un processo di campo, nel
quale i componenti del campo (paziente ed analista) co-creano nuovi
significati. In questa differente visione, anche l'interpretazione acquisisce
un nuovo senso. Si parla di processo interpretativo, non di sola
interpretazione, proprio perché si tratta di un intervento co-creato sia dal
terapeuta che dal paziente. Ha il suo culmine nell'esplicitazione di contenuto
che il terapeuta fa, ma questo non è che l'ultimo passaggio di un processo di
cambiamento iniziato tempo prima; trae i suoi elementi dal materiale esplicito
ed implicito che paziente e terapeuta vivono in seduta, e viene così
co-costruita.
È perciò un intervento tecnico che genera un cambiamento,
così come concettualizzato nella teoria classica, ma viene sottolineato anche
il fatto che essa stessa si generi da un processo di cambiamento già in atto,
senza il quale l'interpretazione non avrebbe un impatto mutativo nel campo.
Questo cambiamento generato è reso possibile dal fatto che
un'interpretazione contiene tre dimensioni: quella affettivo/esperienziale,
quella cognitivo/introspettiva e quella relazionale/interattiva.
La teoria classica spiegava la natura del cambiamento
prendendo in considerazione solo la dimensione cognitivo/introspettiva,
tralasciando le altre due e parlando perciò di un analista “anonimo e
neutrale”. Le tre dimensioni sono però ugualmente importanti, e presenti in
ogni intervento terapeutico, ma quella più trascurata dalla letteratura è
sempre stata quella affettivo/esperienziale. Questa dimensione sottolinea la
necessità e l'ineludibilità del coinvolgimento dell'analista nel processo
terapeutico.
Utilizzando l'ottica intersoggettiva, e quindi la teoria di
campo, risulta evidente come il contributo del terapeuta sia essenziale, ed
anzi sia proprio la sua soggettività che determina il cambiamento del paziente.
La teoria classica eleggeva l'interpretazione a elemento
tecnico principale (se non unico); nel panorama teorico attuale l'interpretazione
perde questo primato, in quanto le dimensioni in essa contenute sono proprietà
anche di tutti gli altri interventi che avvengono in seduta. Tutti gli
interventi, tutte le “mosse relazionali” (Stern, “Il momento presente”), così
come informano il terapeuta sul funzionamento mentale del paziente, allo stesso
modo informano il paziente sui processi di pensiero del terapeuta. In questo
modo, in qualsiasi momento della seduta il terapeuta trasmette la propria
soggettività, ed è proprio questo che permette al paziente di creare una
relazione col terapeuta.
Negli interventi, è proprio la dimensione
affettivo/esperienziale che determina il potere trasformativo degli interventi
stessi. L'efficacia di questi è legata proprio alla misura in cui esprimono la
responsività affettiva del terapeuta. In questo modo il terapeuta, oltre a
trasmettere la propria dimensione affettiva, trasmette anche informazioni su sé
stesso, sulle proprie modalità di funzionamento. Possiamo parlare di un
processo di autosvelamento (Self-disclosure), inevitabile ma di cui il
terapeuta deve essere il più consapevole possibile per poterlo rendere
terapeuticamente efficace.
I pazienti hanno bisogno, per creare una relazione col
terapeuta, di sentire che hanno avuto un effetto su di lui, e che anche lui è
una persona come loro. Per questo è importante trasmettere la dimensione
affettiva e la propria soggettività, che è percepibile non solo dagli
interventi verbali, ma anche e soprattutto dal non verbale e dall'implicito.
La dimensione implicita è estremamente importante, proprio
perché veicola elementi propri del terapeuta che non sono mediati dalla
comunicazione verbale e perciò più difficili da gestire. Si può parlare di una
vera e propria comunicazione tra inconsci, quello del terapeuta e quello del
paziente.
Questo aspetto della tecnica, cioè il fatto che qualsiasi
intervento trasmetta la soggettività del terapeuta, mi ha molto colpito ed
interessato. Soprattutto, vi ho trovato riscontro nella mia pratica clinica. Ho
infatti notato come, all'interno di una seduta, tutto ciò che accade sia
co-determinato da aspetti miei personali, a volte inconsapevoli. Il mio assetto
interno ha influenza su quanto i pazienti esprimono di sé, e gli interventi che
formulo, pur essendo legati a delle “regole” tecniche, riflettono la mia
personalità. Mi rendo conto che probabilmente in alcuni casi è emerso anche
troppo di me nelle sedute, nel senso che non sono riuscita a mediare la mia
soggettività in funzione del paziente e del momento nel quale ci troviamo.
Responsabilità del terapeuta è proprio questa: essere il più
consapevole possibile dei vari aspetti della propria soggettività, e riuscire a
mediarli in modo che siano funzionali a quel determinato paziente in quel
determinato momento.
In questo senso la tecnica è utile, nel senso che permette la
modulazione dell'espressione dell'affettività ed emotività del terapeuta,
mantenendo quindi nel lavoro analitico la tensione tra aspetti personali ed
aspetti tecnici. È quindi vero che tutto, all'interno della seduta,
dall'esplicito all'implicito, trasmette la soggettività del terapeuta, ma è
anche vero che la tecnica aiuta ad utilizzare in modo terapeutico l'espressione
della soggettività, o meglio l'incontro delle due soggettività. L'interpretazione,
uno degli elementi della tecnica, è quindi oggi non solo uno strumento
intrapsichico (concezione classica), ma anche intersoggettivo. Come dice Aron
(“Menti che si incontrano”), un'interpretazione mette in contatto analista ed
analizzando, gettando un ponte sullo spazio transizionale tra loro, li collega
grazie all'incontro delle menti.
La mia intenzione è quella di sottolineare come questo
incontro delle menti sia favorito e reso possibile grazie al processo di
autosvelamento (Self-disclosure), implicito in ogni intervento tecnico, e
quindi anche all'interno dell'interpretazione.
BIBLIOGRAFIA
“Intersoggettività e lavoro clinico_Il contestualismo nella
pratica psicoanalitica”, D.M. Orange, G.E. Atwood, R.D. Stolorow. Raffaello
Cortina Editore, 1999
“I contesti dell'essere_Le basi intersoggettive della vita
psichica”, G.E. Atwood, R.D. Stolorow. Bollati Boringhieri, 1995
“La prospettiva intersoggettiva”, G.E. Atwood, R.D. Stolorow,
B. Brandchaft. Borla, 1996
“Menti che si incontrano”, L.Aron. Raffaello Cortina Editore,
2004
“Il momento presente. In psicoterapia e nella vita
quotidiana”, D. Stern. Raffaello Cortina Editore, 2005