mercoledì 5 dicembre 2012

Psicoterapia online? Commento...

E' stato pubblicato, sulla rivista online State Of Mind, un articolo intitolato "Psicoterapia Online: una nuova Modalità di Supporto. Intervista al Prof. Pim Cuijpers", a cura di Alessia Offredi.
Si tratta di un articolo nel quale vengono fatte alcune domande al Prof. Pim Cuijpers, riguardo l'uso della psicoterapia online. Dalla lettura appare chiaro che questo professore è favorevole all'uso dei nuovi mezzi di comunicazione in psicoterapia, e siccome avevo detto che mi sarei tenuta informata ed aggiornata sull'argomento, ecco la mia personale recensione.
Nell'articolo non compaiono riferimenti circa il professore, ma cercando su internet appare subito una sua traccia (http://www.psy.vu.nl/nl/over-de-faculteit/medewerkers-alfabetisch/medewerkers-c-e/p-cuijpers/index.asp), che rivela come Cupijers sia un docente universitario dell' Università di Psicologia Clinica di Amsterdam. Negli anni, accanto a vari studi e pubblicazioni, si è concentrato sullo studio dell'efficacia della psicoterapia per il disturbo depressivo nell'adulto (http://www.evidencebasedpsychotherapies.org/). Appare quindi come un professionista competente, ma dai siti internet non è chiaro, forse anche per la mia scarsa conoscenza dell'inglese, a che tipo di psicoterapia si riferiscono (psicoanalitica, cognitiva, familiare, fenomenologica, qualsiasi tipo di psicoterapia, ecc) e a quale tipo di depressione (maggiore, reattiva?).
Fatte queste premesse, devo dire che anche l'articolo di Alessia Offredi non contiene particolari riferimenti scientifici, teorici o tecnici.
Riporto uno stralcio:
La psicoterapia online si rivolge a un target di persone specifico (ad esempio una particolare fascia di età, un certo livello di scolarizzazione, etc)? O, d’altro canto, vi è un target di persone che preferisce usufruire di questo tipo di supporto? 
P.C. : Le terapie online sono tanto efficaci quanto le altre psicoterapie per i comuni disturbi mentali. Non c’è alcuna ragione per affermare che siano meno valide nel trattamento di depressione, disturbo d’ansia generalizzatapanico o fobia sociale. Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia delle terapie online. Che le persone scelgano o meno di intraprendere un percorso terapeutico tramite internet dipende fondamentalmente dalle preferenze del paziente.
A me personalmente sarebbe piaciuto sapere a quali studi il professore si riferisce, magari con qualche dato di riferimento. Inoltre l'affermazione che "la scelta [...] dipende fondamentalmente dalle preferenze del paziente" mi sembra potenzialmente pericolosa. Potrebbe significare che la scelta di come curarsi va lasciata al paziente e non al professionista che valuta, in base alle problematiche e risorse del paziente, quale è l'intervento più adatto a lui. A mio avviso si tratterebbe di una responsabilità troppo grande per il paziente, e che cambierebbe gli equilibri della relazione terapeutica. Sarebbe stato interessante chiedere al Prof. Cuijpers maggiori dettagli.
Potrei fare gli stessi commenti per ogni domanda/risposta di questo articolo; in sostanza, ritengo che, seppur molto interessante, sia troppo generico e poco approfondito.
Sicuramente emerge che all'estero gli psicologi si sono aperti alle nuove tecnologie in misura maggiore che in Italia. In effetti noi dormiamo un pò sugli allori, ma credo che comunque siano necessari degli studi molto approfonditi su questo genere di terapie. Molte questioni vanno approfondite, come ad esempio il setting, elemento fondante e contenitore dell'intera terapia. Se questo viene a mancare, cosa resta? Oppure è possibile individuare un nuovo setting on line? Se si, quale?
Insomma, le domande sono molte, di difficile risposta. Credo che, pur guardando con curiosità ed attenzione a questo fenomeno, sia necessario ancora molto lavoro di studio e sistematizzazione della tecnica prima di potervi accedere.



lunedì 3 dicembre 2012

Le nuove prospettive delle neuroscienze, 12/11/2012

Il giorno 12 Novembre 2012, si è tenuto a Brescia, presso l'Università degli Studi di Medicina, un'importante convegno intitolato:  "Le nuove prospettive delle neuroscienze".
All'interno di questo interessantissimo convegno, sono intervenuti molti docenti e studiosi, su un tema particolarmente interessante ed attuale: le nuove prospettive delle neuroscienze e la loro relazione con la psicoanalisi.
Il primo intervento, intitolato "Memoria: traccia fragile e dinamica", è stato tenuto dalla Dottoressa Maria Cristina Alberini (http://www.cns.nyu.edu/corefaculty/Alberini.php). La Dottoressa lavora presso l'università di New York, e si occupa di ricerca nell'ambito dei meccanismi biologici della memoria.
Durante il convegno, ha trattato in particolare i meccanismi della memoria a lungo termine, e della memoria esplicita (dichiarativa). Grazie alle sue ricerche, è stato stabilito che ci sono alcuni tipi di molecole che permettono alle memorie di formarsi, e che rispondono al livello di stress. Quindi si può dire che una certa dose di stress è funzionale alla formazione delle memorie, che però successivamente devono passare attraverso una fase di consolidamento. Questa fase dura circa 24 ore; significa che nelle prime 24 ora da un particolare evento, la memoria di tale evento si consolida tramite un processo chimico di sintesi proteica. Da questo momento in poi, contrariamente alla classica concezione di un processo lineare, ogni volta che una memoria viene ricordata ritorna in uno stato di labilità; è quindi necessario un ulteriore processo di riconsolidamento della memoria. Questo processo serve sia per rafforzare maggiormente le memorie, ma anche per permettere che le memorie evocate nel presente creino nuove associazioni con l'ambiente circostante. Ciò è molto importante per la psicoanalisi; significa che la funzione del terapeuta è creare nuovi stati emotivi nel paziente, che permettano nuove associazioni.
L'intervento successivo, intitolato "I primi mesi di vita e la memoria implicita", è stato tenuto dal Prof. Antonio Imbasciati (http://www.imbasciati.it/) e dal Prof. Pier Franco Spano (http://www.linkedin.com/pub/pier-franco-spano/27/b69/428). L'intervento ha focalizzato l'attenzione su come negli anni si sia arrivati al confronto tra neuroscienze e psicoanalisi. In psicoanalisi, dopo Freud, c'è sempre stata l'attenzione al bambino piccolo (autori quali Melanie Klein, Winnicott, Mary Ainsworth), fino all'elaborazione della Teoria dell'attaccamento (Bowlby). Con questa teoria è emerso come le interazioni dei primi due anni di vita, che sono di tipo non-verbale, strutturino le successive esperienze relazionali. E' quindi stato sottolineato come i  primi due anni di vita, nonchè i mesi intrauterini, siano di importanza fondamentale per la strutturazione della memoria e delle relazioni.
Il penultimo intervento, intitolato "Tra neuroni ed esperienza. Le neuroscienze e la genesi di soggettività ed intersoggettività", è stato tenuto dal Prof. Vittorio Gallese (http://www.unipr.it/arpa/mirror/english/staff/gallese.htm). In questo intervento il professore ha spiegato l'ormai noto funzionamento dei Neuroni Specchio, che ci permettono di avere un accesso al mondo esperienziale dell'altro. Dato che questo tipo di neuroni, o di insiemi di neuroni, risponde a stimoli di tipo motori (sia eseguiti da me stesso che eseguiti da altri) e permette di comprendere i significati e le intenzioni degli altri, si può dire che a livello base l'Intersoggettività è intercorporeità. Tutto ciò crea un collegamento importantissimo tra tutti gli interventi proposti: meccanismi mnemonici, comunicazione non verbale, intersoggettività, perinatalità. Possiamo dire che i neuroni specchio si configurano come una "prova" della base biologica degli assunti psicoanalitici, cioè della formazione dell'intersoggettività e dell'empatia.
L'ultimo intervento, chiamato "Psicoanalisi e neuroscienze: prospettive di incontro e ricerca", è stato tenuto dal Prof. Silvio Merciai (http://merciai.blogspot.it/). In questo intervento il professore mette l'accento su quanto ad oggi la psicoanalisi non possa più ignorare l'influenza delle scoperte neuroscientifiche. La psicoanalisi deve ormai fare un grosso lavoro di integrazione delle nuove scoperte con la tecnica classica, anche a costo di perdere qualcosa (come ad esempio la concettualizzazione delle Libere Associazioni).

giovedì 22 novembre 2012

Conclusione e conclusioni del processo analitico


La conclusione è parte fondamentale del processo analitico. È implicitamente già presente dall’inizio di una terapia, in quanto una relazione terapeutica è una relazione “a termine”.
Nella teorizzazione psicoanalitica classica, la conclusione era stata inizialmente sottovalutata da Freud. Nel tempo, però, egli è arrivato a concettualizzare il processo analitico come una continua ed approfondita analisi di transfert. Di conseguenza, una volta risolto il transfert, e quindi elaborato e “svelato” il rimosso, era possibile concludere una terapia. In quest’ottica, il processo di separazione era unilaterale; era cioè il paziente che si separava dal terapeuta. L’aspetto controtransferale non veniva sottolineato.
Nelle concezioni attuali, e nell’ottica intersoggettivista in particolare, la separazione finale avviene a due livelli: interattivo e meta-interattivo.
Il livello interattivo è quello reale, quello cioè della separazione tra due persone. Qui, a differenza della teoria classica, non è solo il paziente che si separa dal terapeuta, ma è anche il terapeuta che si separa dal paziente, in quanto persone, individui.
Il livello meta-interattivo è invece quello asimmetrico, nel quale si separano una persona esperta ed una che non lo è. Da questo punto di vista, la conclusione fa emergere la teoria del paziente sulle separazioni.
In questo senso, la conclusione viene intesa sia come fase processuale, sia come evento specifico, di separazione reale. Perché la conclusione sia una fase utile e significativa del processo analitico, bisogna fare una buona valutazione del momento adatto per quel particolare paziente, nonché arrivare al raggiungimento di alcuni obiettivi propri di questa fase.
Per capire quando ipotizzare una conclusione, ci si può affidare ad alcuni criteri; in particolare alla valutazione della teoria emotiva del paziente, cioè se si è passati da un’organizzazione rigida e limitata ad una ampia e flessibile. In linea con questa considerazione, gli obiettivi di questa fase sono: il consolidamento e l’integrazione dei nuovi convincimenti emotivi, l’acquisizione della multimodalità, della capacità di contestualizzazione, nonché l’acquisizione del senso di separatezza ed alterità e l’acquisizione della consapevolezza delle proprie azioni.
In linea teorica, quindi, quando in un contesto analitico sussistono i criteri per poter pensare ad una conclusione, paziente e terapeuta decidono insieme che è tempo di terminare, fissano una data, ed affrontano insieme il processo della conclusione.
Calando, però, la teoria all’interno della clinica, si può osservare che non sempre le cose funzionano così.
Infatti non sempre si arriva all’ultima seduta avendo fatto tutto ciò che era possibile fare a quella specifica coppia paziente/terapeuta. In altri casi, la conclusione può avvenire in fasi diverse, oppure può non avvenire mai. Si parla quindi di interruzione, e non di conclusione.
Se ciò avviene in fase iniziale, probabilmente è a causa di un eccesso di dissimilarità tra paziente e terapeuta, tale da non consentire l’attivazione della relazione. In fase centrale un’interruzione è probabilmente dovuta ad una difficoltà del terapeuta a rimodellare il campo. In fase finale, di fronte alle difficoltà di separazione, è possibile assistere ad una conclusione agita (cioè il paziente che termina prima della data concordata), oppure alla non-conclusione, cioè all’instaurarsi di una terapia a vita, nella quale la conclusione viene sempre rimandata.
Già da queste osservazioni, si può capire come la clinica sia molto più “variabile” rispetto alla teoria. Così come la terapia va costruita “su misura”, cioè adattata a quella particolare coppia terapeutica, anche la conclusione sarà su misura.
Innanzitutto bisogna considerare che il punto di arrivo di ogni paziente sarà diverso, anche in base al quadro relazionale di appartenenza. Cioè, un paziente appartenente al quadro razionalizzante, potrà avere risultati ben diversi da un paziente appartenente ad un quadro ostile-abusante. Questo anche in base al quadro di appartenenza del terapeuta. È quindi necessario riuscire ad effettuare una diagnosi della coppia terapeutica, per capire fino a che punto potranno arrivare, quali relazioni saranno attivabili.
Inoltre, ogni coppia troverà la propria modalità di concludere, oltre che in base ai quadri di appartenenza, anche in quanto persone, con la propria soggettività. Infatti ogni terapeuta avrà una propria modalità, che sarà adattata ad ogni singolo paziente.
In questo senso possiamo parlare di conclusioni, al plurale.
Infatti, tenendo sempre ben presente la conclusione dal punto di vista teorico e tecnico, è impensabile il non adattarla ad ogni individuo, creando così infinite conclusioni, una per ogni coppia paziente/terapeuta.

lunedì 19 novembre 2012

Psicoterapie telefoniche?

Cerco di rispondere ai dubbi sollevati da un lettore del precedente articolo "Interpretazione come autosvelamento". La questione che mi è stata posta è la seguente: "Se solo ora ci si pone la questione sull'essere umano nella stanza insieme al paziente, perchè fino ad ora le sedute non sono state fatte al telefono?".
Credo che questa domanda meriti risposte a più livelli.
Innanzitutto, riferendomi al "solo ora" non intendo certo gli ultimi mesi. Si tratta di un "ora" relativo alla teoria scientifica; contando che la psicoanalisi ha una storia di poco più di un centinaio di anni, se consideriamo gli ultimi dieci-quindici anni, questi appaiono come una finestra temporale molto breve, rispetto all'intera storia scientifica. Con questo intendo dire che l'attenzione data al ruolo del terapeuta è relativa alle ultime decadi, che in un'ottica scientifica è un tempo piuttosto esiguo.
Secondariamente, con l'articolo precedente la mia intenzione era quella di sottolineare come, nelle ultime ottiche scientifiche, è stato (ri)valutato il controtransfert (cioè la "reazione" del terapeuta al paziente) come facente parte a  pieno titolo della terapia. Anzi, secondo gli autori dell'intersoggettivismo (Stolorow, Atwood), è proprio grazie al contributo di quello specifico terapeuta con quel determinato paziente in un preciso momento della vita di entrambe, che permette di strutturare una determinata relazione terapeutica.
Nella psicoanalisi classica (cioè secondo l'impostazione di Freud) le reazioni del terapeuta al paziente (controtransfert) erano percepite come una sorta di "disturbo", perchè non permettevano al terapeuta di osservare le reazioni transferali del paziente. Inoltre era concettualizzato che quanto portato dal paziente in seduta fosse tutto "farina del suo sacco", mentre ora è assodato che è in stretta relazione con la persona del terapeuta. In sostanza, paziente e terapeuta si influenzano reciprocamente, un vero e proprio "dialogo tra inconsci", che viene considerato a pieno titolo facente parte della terapia,
Diciamo che, nel corso del Novecento, c'è stata una sorta di "rovesciamento" all'interno della teoria psicoanalitica. Freud ha concepito la psicoanalisi con gli occhi di uno scienziato (era neurologo), in un periodo scientifico improntato al positivismo; cioè esisteva lo studioso da un lato, e l'oggetto di studio dall'altro. E' questo punto di vista che si è modificato col tempo, quando per la scienza era ormai innegabile che l'osservatore influisce, con l'osservazione, sull'osservato. Assodato che l'obiettività pura è irraggiungibile, soprattutto se ci riferiamo alle relazioni umane, ecco che allora si pone più in risalto la figura dell'osservatore (il terapeuta, nel nostro caso) come facente parte del fenomeno osservato.
Rispetto al mezzo col quale viene osservato il fenomeno, cioè il faccia a faccia piuttosto che il telefono, bisogna premettere che Freud stesso parte da un modello medico. Come medico, era abituato a vedere i propri pazienti in uno studio, stesi su di un lettino. Quando inizia a "curare con le parole", si accorge che la visione reale del paziente davanti a sè, racchiude una grossa mole di informazioni, altrimenti non osservabili. Si tratta di tutto ciò che è racchiuso sotto il termine di "non verbale". Nel non verbale sono considerati tutti i movimenti del corpo, del viso, con quale modalità vengono eseguiti, in quale momento dell'interazione vengono eseguiti, in relazione a quali contenuti, la prossemica, il modo di occupare lo spazio, e via dicendo. Va da sè che utilizzando una modalità come quella telefonica, tutto ciò viene meno.
Inoltre, la possibilità di vedere il paziente in uno studio, permette di strutturare quello che è chiamato Setting. Per setting si intende tutto l'insieme di oggetti fisici che compongono lo studio e delle regole della terapia (orari fissi, pagamento, durata dei colloqui, pause festive, ecc.). Il setting ha l'importante funzione di strutturare e tutelare la terapia ed il terapeuta, nonchè di far emergere molti aspetti del paziente (ad esempio se riesce a stare alle regola imposte). Con modalità diverse dal vedersi faccia a faccia, tutto ciò verrebbe a mancare, e si otterrebbe un lavoro terapeutico completamente differente.
A quanto ne so io, non ci sono in Italia terapeuti che svolgono psicoterapie telefoniche.
D'altro canto è vero che, con l'avvento del web, sta emergendo la possibilità di lavorare online, e quindi fare consulenze via web. E' ancora un campo estremamente nuovo, non studiato e pieno di pericoli. Al momento l'Ordine degli   Psicologi della Lombardia si esprime così in merito alla regolazione di terapie on-line (e affini):

4.1.1 In considerazione del rapido sviluppo dei sistemi di comunicazione e delle ricadute di questi sulla pratica professionale a distanza, gli psicologi devono utilizzare con cautela soprattutto quelli ancora mancanti di una base di ricerca consolidata.
4.1.2 È un dovere professionale dello psicologo che opera a distanza di informarsi sulle caratteristiche e sui limiti dei mezzi utilizzati e di tenere conto della ancora ridotta disponibilità di informazioni sulle differenze con l’interazione diretta.
4.1.3 Lo psicologo tiene conto dei limiti della propria competenza sugli strumenti e sulla tecnologia che utilizza e, conseguentemente, attiva servizi ed intraprende solo attività compatibili con tali limiti.

 Appare chiaro che l'Ordine si riferisce al web, ma si esprime in generale rispetto a mezzi di comunicazione diversi dall'impostazione classica. Viene sottolineato come questi sistemi di comunicazione non siano ancora stati studiati, e non sia quindi possibile prevederne i limiti o gli eventuali vantaggi.
Il mio personale pensiero è che non ci sia alcun mezzo di comunicazione che sia equiparabile all'interazione faccia a faccia. Anche pensando alle relazioni quotidiane, della vita di ognuno, sentirsi per telefono è una cosa, ma passare del tempo insieme ha un valore completamente diverso.
Per tutti questi motivi ritengo che non sia possibile fare psicoterapia al telefono, oppure online, via mail o skype, anche se so che sono mezzi che si stanno diffondendo, sicuramente da tenere d'occhio (a tal proposito, è uscita da poche settimane in italia una serie televisiva, che non sono ancora riuscita a guardare, intitolata "Webteraphy"). Spero che la spiegazione sia stata esauriente.

BIBLIOGRAFIA
www.opl.it

domenica 11 novembre 2012

Interpretazione come autosvelamento


Nella teoria psicoanalitica classica, l'interpretazione è stata concepita come un intervento fatto dall'analista verso il paziente, che aggiunge qualcosa di nuovo alla sua conoscenza della propria vita psichica tramite un processo di insight.
In questa concezione è implicita l'idea del paziente come oggetto di studio, e “ricevente passivo” delle interpretazioni dell'analista. Dal canto suo, l'analista è concepito come uno specchio, neutrale all'interno della seduta, a cui non è permesso esprimere la propria soggettività. Anzi, le proprie reazioni al paziente, cioè il controtransfert, viene inizialmente visto come elemento disturbante e per cui l'analista necessita di ulteriore analisi. La soggettività del terapeuta non deve perciò entrare all'interno della seduta, in quanto “disturbante” per il processo del paziente.
Con le nuove teorie, a partire dalle teorie relazionali fino all'intersoggettivismo, tutto ciò subisce un cambiamento.
Innanzitutto l'analisi è vista come un processo di campo, nel quale i componenti del campo (paziente ed analista) co-creano nuovi significati. In questa differente visione, anche l'interpretazione acquisisce un nuovo senso. Si parla di processo interpretativo, non di sola interpretazione, proprio perché si tratta di un intervento co-creato sia dal terapeuta che dal paziente. Ha il suo culmine nell'esplicitazione di contenuto che il terapeuta fa, ma questo non è che l'ultimo passaggio di un processo di cambiamento iniziato tempo prima; trae i suoi elementi dal materiale esplicito ed implicito che paziente e terapeuta vivono in seduta, e viene così co-costruita.
È perciò un intervento tecnico che genera un cambiamento, così come concettualizzato nella teoria classica, ma viene sottolineato anche il fatto che essa stessa si generi da un processo di cambiamento già in atto, senza il quale l'interpretazione non avrebbe un impatto mutativo nel campo.
Questo cambiamento generato è reso possibile dal fatto che un'interpretazione contiene tre dimensioni: quella affettivo/esperienziale, quella cognitivo/introspettiva e quella relazionale/interattiva.
La teoria classica spiegava la natura del cambiamento prendendo in considerazione solo la dimensione cognitivo/introspettiva, tralasciando le altre due e parlando perciò di un analista “anonimo e neutrale”. Le tre dimensioni sono però ugualmente importanti, e presenti in ogni intervento terapeutico, ma quella più trascurata dalla letteratura è sempre stata quella affettivo/esperienziale. Questa dimensione sottolinea la necessità e l'ineludibilità del coinvolgimento dell'analista nel processo terapeutico.
Utilizzando l'ottica intersoggettiva, e quindi la teoria di campo, risulta evidente come il contributo del terapeuta sia essenziale, ed anzi sia proprio la sua soggettività che determina il cambiamento del paziente.
La teoria classica eleggeva l'interpretazione a elemento tecnico principale (se non unico); nel panorama teorico attuale l'interpretazione perde questo primato, in quanto le dimensioni in essa contenute sono proprietà anche di tutti gli altri interventi che avvengono in seduta. Tutti gli interventi, tutte le “mosse relazionali” (Stern, “Il momento presente”), così come informano il terapeuta sul funzionamento mentale del paziente, allo stesso modo informano il paziente sui processi di pensiero del terapeuta. In questo modo, in qualsiasi momento della seduta il terapeuta trasmette la propria soggettività, ed è proprio questo che permette al paziente di creare una relazione col terapeuta.
Negli interventi, è proprio la dimensione affettivo/esperienziale che determina il potere trasformativo degli interventi stessi. L'efficacia di questi è legata proprio alla misura in cui esprimono la responsività affettiva del terapeuta. In questo modo il terapeuta, oltre a trasmettere la propria dimensione affettiva, trasmette anche informazioni su sé stesso, sulle proprie modalità di funzionamento. Possiamo parlare di un processo di autosvelamento (Self-disclosure), inevitabile ma di cui il terapeuta deve essere il più consapevole possibile per poterlo rendere terapeuticamente efficace.
I pazienti hanno bisogno, per creare una relazione col terapeuta, di sentire che hanno avuto un effetto su di lui, e che anche lui è una persona come loro. Per questo è importante trasmettere la dimensione affettiva e la propria soggettività, che è percepibile non solo dagli interventi verbali, ma anche e soprattutto dal non verbale e dall'implicito.
La dimensione implicita è estremamente importante, proprio perché veicola elementi propri del terapeuta che non sono mediati dalla comunicazione verbale e perciò più difficili da gestire. Si può parlare di una vera e propria comunicazione tra inconsci, quello del terapeuta e quello del paziente.

Questo aspetto della tecnica, cioè il fatto che qualsiasi intervento trasmetta la soggettività del terapeuta, mi ha molto colpito ed interessato. Soprattutto, vi ho trovato riscontro nella mia pratica clinica. Ho infatti notato come, all'interno di una seduta, tutto ciò che accade sia co-determinato da aspetti miei personali, a volte inconsapevoli. Il mio assetto interno ha influenza su quanto i pazienti esprimono di sé, e gli interventi che formulo, pur essendo legati a delle “regole” tecniche, riflettono la mia personalità. Mi rendo conto che probabilmente in alcuni casi è emerso anche troppo di me nelle sedute, nel senso che non sono riuscita a mediare la mia soggettività in funzione del paziente e del momento nel quale ci troviamo.
Responsabilità del terapeuta è proprio questa: essere il più consapevole possibile dei vari aspetti della propria soggettività, e riuscire a mediarli in modo che siano funzionali a quel determinato paziente in quel determinato momento.
In questo senso la tecnica è utile, nel senso che permette la modulazione dell'espressione dell'affettività ed emotività del terapeuta, mantenendo quindi nel lavoro analitico la tensione tra aspetti personali ed aspetti tecnici. È quindi vero che tutto, all'interno della seduta, dall'esplicito all'implicito, trasmette la soggettività del terapeuta, ma è anche vero che la tecnica aiuta ad utilizzare in modo terapeutico l'espressione della soggettività, o meglio l'incontro delle due soggettività. L'interpretazione, uno degli elementi della tecnica, è quindi oggi non solo uno strumento intrapsichico (concezione classica), ma anche intersoggettivo. Come dice Aron (“Menti che si incontrano”), un'interpretazione mette in contatto analista ed analizzando, gettando un ponte sullo spazio transizionale tra loro, li collega grazie all'incontro delle menti.
La mia intenzione è quella di sottolineare come questo incontro delle menti sia favorito e reso possibile grazie al processo di autosvelamento (Self-disclosure), implicito in ogni intervento tecnico, e quindi anche all'interno dell'interpretazione.


BIBLIOGRAFIA

“Intersoggettività e lavoro clinico_Il contestualismo nella pratica psicoanalitica”, D.M. Orange, G.E. Atwood, R.D. Stolorow. Raffaello Cortina Editore, 1999
“I contesti dell'essere_Le basi intersoggettive della vita psichica”, G.E. Atwood, R.D. Stolorow. Bollati Boringhieri, 1995
“La prospettiva intersoggettiva”, G.E. Atwood, R.D. Stolorow, B. Brandchaft. Borla, 1996
“Menti che si incontrano”, L.Aron. Raffaello Cortina Editore, 2004
“Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana”, D. Stern. Raffaello Cortina Editore, 2005